GABRIELLA - Racconti

BLU, GIALLO E ROSSO

Racconto presente nel volume Lampi di oscurità – TriplaE Edizioni

BLU, GIALLO E ROSSO

Tic-tac.

Pausa.

Tic-tac.

Pausa.

Tic-tac.

Pausa.

Tictactictactictactictactictactictactictactictac!

Sono qui. Sono sola. Io e un orologio impazzito. Le lancette della sveglia sul mio comodino camminano instancabili, monotone. Cantano una cantilena di morte.

Muo-ri.

Pausa.

Muo-ri.

Pausa.

Muo-ri.

Pausa.

Muorimuorimuorimuorimuorimuorimuorimuori!

Non si fermano, mai. Mi spingono, premono e mordono. Mordono il mio tempo, la mia carne, i miei pensieri. Scandiscono il mio presente e il mio passato. E il tuo futuro.

E il mio? Non lo so, ma forse dopo ce l’avrò, un futuro. Dopo, quando le lancette pazze si saranno finalmente arrestate. Ora ticchettano, e non mi danno tregua. Potrei fermarle, se volessi. Oppure con un enorme sforzo di volontà potrei prendere la sveglia e capovolgerla, metterla in fondo a un cassetto e ricoprirla di biancheria sporca.

Sporca? In un cassetto? Certo. Per forza. Quel tempo che le lancette scandiscono non potrà mai essere un tempo pulito. Non fino al momento che stanno aspettando, e io con loro. Non fin quando riprenderanno a ticchettare senza lasciare tracce indelebili sulle mie ore.

Non si fermerebbero per questo, è vero, ma almeno sotto quel mucchio di lenzuola io non le sentirei più. Se volessi. Ma ecco, il punto è proprio questo: non voglio. Io voglio andare avanti fino all’ultimo ineluttabile ticchettio che, come goccia su pietra, scava lentamente nella mia testa. Lo devo a troppa gente.

Io, involontario araldo di una moltitudine silente. Figure immobili come sentinelle di marmo sull’attenti, poste ai lati del mio cammino, in attesa di vedermi passare. Sono l’unica che può farlo. Per me che sono, per loro che sono state, per le altre che avrebbero potuto essere e meno male che non saranno. Grazie a me. Anche se ne avrei fatto volentieri a meno.

Va-i.

Pausa.

Va-i.

Pausa.

Va-i.

Pausa.

Vaivaivaivaivaivaivaivaivaivaivaivaivaivaivai!

Sì, devo andare. È ora. Ma come è strano, il tempo. Gli anni dietro di me sono trascorsi con lentezza esasperante, una stagione dopo l’altra, sempre uguali a sé stessi. Cambiava soltanto la percezione della temperatura, caldo/freddo, mezzo caldo/mezzo freddo… E sempre gli stessi gesti, nell’incrollabile certezza che l’attesa avrebbe avuto termine. Prima o poi.

Poi, oggi. Per meglio dire: il tempo che mi ha portata a oggi. Granitiche lame di tempo cadute come ghigliottina sulle ore, affettandole sottilissime.

Un vassoio offerto alla mia attesa, ricolmo di ore a pezzi, congelate. E bisogna consumarle subito, altrimenti si trasformeranno in pozza liquefatta ed evaporeranno sotto il sole feroce di questa giornata, lasciando come unica traccia un alone opaco di cui nessuno si chiederà il significato.

In questa mattina afosa invece – sotto i colpi di un sole sorto da poco e già feroce – il tempo scivola via rapido, e mi conduce a te. Non posso indugiare. Quei momenti, che fino all’istante in cui hanno preso la rincorsa si dilatavano rarefatti, ora sono un elastico teso allo spasimo: un indugio di troppo, e si spezzano.

E allora mi vesto, anche se non ne ho voglia. Un vestito dimesso, un paio di scarpe senza tacco, nemmeno un anello o degli orecchini.

Sembro una donna come tante. Grigia e spenta, come quelle che la vita ha offeso promettendo senza mantenere, prendendo senza mai dare. È proprio l’abito a fare il monaco, agli occhi della gente.

Grigia e spenta… Così appaio al mondo, alla gente. A quelli che vedono solo la superficie, che pensano alla mia vita scialba con un sottofondo di disprezzo. Se e quando ci pensano. Non sono un tipo di cui ci si ricorda, scivolo accanto alle vite degli altri sfiorandole a malapena. Non che la cosa mi turbi, anzi. Passare inosservata è proprio ciò che voglio. Ne ho già avuta troppa di attenzione, per desiderarne ancora.

Eppure mi piacerebbe presentarmi nuda di fronte a te. Nuda, senza inutili orpelli che nascondono la mia anima, i miei pensieri più profondi. Perché questo sono, i vestiti. Una maschera per camuffare la nostra vera essenza, per sembrare quello che non siamo.

Un ghigno involontario solleva verso l’alto un angolo delle mie labbra. Sai che ridere se arrivassi lì come mamma mi ha fatto.

Ridere, proprio. Non ho molta voglia di ridere, io. Nemmeno tu, credo. Però, la vuoi sapere una cosa buffa? Adesso che ci penso, che tu non abbia voglia di ridere beh, un poco mi diverte.

Oh dai, in ogni caso non credo che riuscirei ad arrivare, mi fermerebbero prima. Non devo fare molta strada, abito quasi di fronte a te, ma sarebbe difficile percorrere anche solo quelle poche centinaia di metri. Quanto durano, pochi metri? Se li consideriamo in termini di lunghezza del percorso, ben poco. Non ci si stanca neppure volendo, a farli. C’è chi li fa in ginocchio, per penitenza, e ci riesce ugualmente. Ma noi due lo sappiamo, non è la lunghezza quella che conta. È il tempo.

Tic – tac!

Pochi metri, tutta una vita. Sono venuta apposta ad abitare qui, sai? La casa non è un granché, e nemmeno il luogo, a dire il vero. Una palazzina squallida e grigia che si affaccia su un lungo muro di cemento che, a sua volta, delimita il terreno spoglio in cui sorge una costruzione imponente. Al centro, tu. Il perno su cui si è appoggiata la mia vita silenziosa.

A volte mi domando se la sai, l’importanza che hai assunto nella mia esistenza. Li conosci, per caso, gli anni che ho dedicato a te? Ti ricordi di me? Oh, adesso sì, adesso lo sai che esisto. Ma io parlo di prima, di quando vivevo nel silenzio impotente che accompagnava i miei passi incoscienti e tu invece andavi in giro a giocare.

Il muro è costellato di graffiti incomprensibili, strane scritte di protesta, forse, o di ribellione, o di incitamento alla violenza. Neanche ce ne fosse bisogno, di altra violenza. Non basta quella contenuta al di là del muro? Imbrigliata, controllata, sedata, ma presente. Ce n’è d’avanzo.

Comunque. Mi sono vestita, indosso un abitino di lino color tortora. Niente colori allegri per me. E nemmeno per te. Io non ne ho più la voglia, e tu non ne hai più bisogno. Dalla vita hai già avuto più colore di quanto meritassi. Hai avuto il blu, e il giallo… e il rosso. Tanto rosso.

II

Avanti, indietro. Avanti, indietro… Skriek, skriik. Skriek, skriik…

Il cigolio delle molle arrugginite accompagnava il suo lento dondolarsi nell’aria afosa. Alle sue spalle la vecchia casa in legno scrostato – riverniciare era una spesa voluttuaria che non potevano assolutamente permettersi – davanti a lei i campi deserti, riarsi dalla calura. L’unico movimento era dato dalla Fata Morgana che ondulava l’aria e ingannava gli occhi, creando fantasmagoriche immagini di torri e castelli nel cielo. Lei sapeva benissimo che erano tutte un miraggio della luce e del calore, ma si divertiva lo stesso a guardarle dalla sua altalena e a sognare.

A quell’ora non c’era più nessuno chino sui solchi. In estate il lavoro iniziava alle tre del mattino e alle dieci era già finito. Poi le faccende di casa, poi mangiavano, e infine Ma’ si coricava nella sua stanza sul retro.

 Le imposte, accostate a tener fuori il sole, lasciavano passare l’aria e qualche moscone, stordito dal caldo, che ronzava estenuato e picchiava stolidamente contro le tende mentre lei recuperava il sonno perduto.

La salute che perdeva a sbattersi nei campi ogni giorno della sua vita, sette giorni alla settimana, quella no, la donna non la recuperava. A quarantacinque anni le contadine sono già vecchie, consumate da un lavoro che le smangiucchia un tanto all’ora. Per fortuna di energia gliene avanzava sempre un po’, a sera. Come facesse, dopo giornate come quelle, ad avere ancora voglia di far l’amore col marito, specialmente in estate con quel caldo opprimente che non lasciava la presa nemmeno di notte…

Però ci riusciva, e lei ne era la prova concreta. Erano venuti altri fratelli, prima e dopo. Ma quelli prima erano già andati via – si diventa adulti presto quando si è poveri e a sedici anni si è già di troppo – e quello dopo era morto nel momento in cui nasceva, e con la sua morte aveva tolto alla madre ogni futuro figlio. E forse era stata una inconsapevole benedizione.

Lei li sentiva quando facevano l’amore.

La casa era piccola e le sottili pareti di legno e cartongesso non tenevano nessun segreto all’interno, e anche se i suoi genitori non proferivano parola aveva imparato a riconoscere i tonfi ritmati della testiera contro il muro. Non era stupida, sapeva quel che significava. Faceva sempre finta di dormire, dopo. Dopo, quando la mamma si alzava a controllare di non averla svegliata, pronta a sfiorarle la fronte con un bacio leggero, e prima che l’odore del fumo di sigaretta si spandesse per casa. Era l’unico vizio dei suoi, ma anche quello era un lusso costoso che loro due si concedevano soltanto in quelle occasioni, una boccata a testa mentre l’odore del sesso si mischiava con quello aromatico del tabacco.

Ma ormai erano due anni che il letto di sua madre era vuoto e l’ultimo pacchetto di sigarette era rimasto, consumato a metà, nel cassetto del comodino di sinistra. Suo padre se n’era andato in silenzio, senza una parola di spiegazione. Si era appeso alla trave del granaio semidistrutto dall’ultimo uragano e si era lasciato penzolare nel vuoto. Le aveva abbandonate a combattere una battaglia senza speranze, di quelle perse in partenza.

Però Ma’ era una tosta, e non si lamentava mai. Rade lacrime le avevano solcato il viso solo quando la bara era stata calata nella fossa scavata di fresco. Vecchie assi di legno nella terra ancora gonfia d’acqua. Solo allora.

L’aveva vista piangere solo quel giorno, e mai più. Non aveva indossato abiti neri, non aveva soldi da sprecare per esibire il lutto che portava dentro. Ma in casa non si era più sentito odore di sigaretta.

Poi, chiusi dentro lacrime e dolore, era andata avanti, affrontando la vita a viso duro. Soltanto, non aveva mai tempo per lei. Si era caricata sulle spalle, oltre al suo, anche il lavoro dell’uomo. Davvero non le rimanevano spiccioli di ore per vivere altri momenti.

In quei pomeriggi assolati la bambina, che non aveva debiti né con la notte né col tempo, rimaneva a giocare da sola sul portico. A volte veniva qualcuno a tenerle compagnia dalle fattorie vicine. Vicine per modo di dire, erano tutte case sparse nella campagna, ma i figli di contadini sono abituati ai lunghi percorsi a piedi. Quelli ricchi avevano i furgoni, vecchi pick-up che continuavano a funzionare per pura bontà d’animo nei confronti dei loro padroni. Quelli poveri… avevano i piedi per camminare e i calli per non farsi male sul terreno. E comunque i mezzi di trasporto servivano per il lavoro, non per scambiarsi visite di cortesia.

III

Prima di uscire di casa bevo un bicchiere d’acqua. Fa così caldo che nonostante l’aria condizionata – che tengo al minimo, per non consumare troppo – il vetro della bottiglia si appanna nel momento stesso in cui la tiro fuori dal frigorifero. È piacevolmente gelata. La poggio sulla fronte e sulla nuca con un brivido di soddisfazione. Mi piace il freddo. Non ha odore, non ha sapore. Non ha colore.

Bevo a piccoli sorsi, non voglio rischiare una congestione. Non oggi. Oggi devo essere in possesso di tutte le mie capacità. Fisiche e mentali. È difficile resistere, ho la bocca così secca che la lingua mi si incolla al palato e le labbra sembrano grosse il doppio, troppo ingombranti per parlare o anche solo per accostarle al vetro, ma mi sforzo. Impiego circa tre minuti a svuotare il bicchiere. Un sorso alla volta, mantenuto qualche secondo tra guance e palato senza deglutire, per gustarne la frescura. Senza rischi per lo stomaco.

«E non sto perdendo tempo apposta» esclamo a voce alta rivolta alla mia immagine riflessa nello specchio dell’ingresso.

La voce mi esce distonica, aspra e spezzata. Quanti giorni sono che non parlo con nessuno? Da quando ho ricevuto quella telefonata: «È fatta. È definitiva.»

Ho riattaccato senza quasi pronunciare parola.

«Va bene. Grazie.»

E non ho aggiunto altro. Sono convinta che la persona all’altro capo del filo abbia compreso fino in fondo il significato della mia scarna risposta.

Anche prima, non è che parlassi chissà quanto…

La mia vita è fatta di silenzio, quello stesso che mi ha tenuto compagnia per anni. E di silenzi. I silenzi di quelle come me, che a differenza di me non hanno mai ripreso a parlare. E Dio sa se non avrebbero voluto. Comunque, è stato allora. Da quando è arrivata quella telefonata. Io mi sono ammutolita e le lancette invece hanno iniziato a cantare. Il mondo intorno a me ha assunto una sfumatura diversa. Era sempre lo stesso mondo grigio e scuro che mi era caduto addosso quando il colore della mia vita mutò, ma quel giorno, quando il telefono ha squillato, qualcosa è cambiato. No, non è esatto. Qualcosa ha promesso di cambiare. Ecco, così è più giusto. L’anonima squallida casa in cui vivo, da quanti anni? Non so, non voglio ricordare, ma sono sicuramente troppi, lo stupido lavoro svolto solo per sopravvivere all’attesa, io, io stessa, stiamo tutti aspettando di cambiare.

C’è una promessa, nell’aria. Come fosse primavera.

Ma sì, lo so che è estate, certo! Se anche non ci stessi più con la testa – e non sarebbe poi così difficile dopo tutto questo tempo – basterebbe il sudore che mi cola lungo la fronte e negli occhi e che forma umide e disgustose chiazze sotto le ascelle a ricordarmelo, no? Lo so che è estate, afosa e schifosa e intollerabile estate, marcia di odori sfatti e di ricordi in decomposizione, ma per me è come se fosse primavera. Vita nuova, a primavera.

Vita nuova? Ah, ah, ah, ah, ah, ah! Una risata incredibilmente forte e lunga mi fa piegare in due. Sento distintamente gli intestini che mi si attorcigliano nello stomaco, formano un nodo che contiene tutti i colori che mi sono mancati, e in più il grigio che invece ho avuto in abbondanza e il verde della bile che ho ingerito quotidianamente.

Mi viene voglia di vomitare. Vado nel piccolo bagno del mio minuscolo appartamento. È un locale triste e buio, senza nemmeno un piccolo finestrino che dia all’esterno, ma la tazza è là che mi aspetta, fredda e invitante.

L’ho già detto che il freddo mi piace?

Eccola là, in attesa delle mie interiora. E io so che se gliele do poi starò meglio, e mi chino e mi sforzo appoggiando le mani sudate sulla porcellana bianca, ma non accade nulla. Gli intestini sono talmente annodati e stretti che nemmeno una goccia di rigurgito fuoriesce, anche se la bocca mi si riempie di un sapore amaro.

Il sapore della mia esistenza.

Poco importa. Ancora poche ore, tre o quattro al massimo, e prenderò in mano il capo delle mie viscere per districarle e rimetterle in ordine. Così come farò anche con la mia vita. Non ci vorrà molto, riuscirò ad arrivare alla fine di questa giornata. Devo solo aspettare ancora un po’.

Tic – tac.

È una vita che aspetto. In silenzio. Giorni, mesi e anni senza parlare. Ma era solamente il suono che non riusciva a venir fuori dalle mie labbra spalancate, dalla gola contratta e dolorante nello sforzo di pronunciare le parole che premevano dentro la testa, protestando. Non mi mancavano, le parole. Mi mancava la voce per pronunciarle. Perché io le vedevo, tutte in fila come soldatini ordinati, un esercito di parole immobili, incise a chiare lettere e in bella grafia nella mia mente, eppure mute.

E la penna non mi è stata d’aiuto. Lo stesso incantesimo che le congelava in punta di lingua, le incollava in punta di dita.

E tu, quanto te ne sei approfittato del mio silenzio!

IV

«Dai, vieni. Dammi la mano.»

Lei lo scrutò dal basso del suo metro e trenta, e il suo sguardo percorse senza timore tutto il lungo tragitto iniziando dalla punta dei sandali impolverati, poi su per la maglietta consumata, fino ai suoi lucidi occhi scuri. Lo conosceva, sapeva di potersi fidare di lui. La mano che le tendeva era salda e forte. Anche callosa e ruvida, perché gli piaceva lavorare la terra, e un po’ le grattava la sua più piccola e tenera, ma era una mano sicura.

Con un saltello venne giù dal dondolo. L’aria era immobile, i vestiti le si erano appiccicati addosso persino a stare così, senza fare nulla. Che caldo faceva!

«Allora, andiamo al lago? L’hai messo, il costume?» la interrogò l’ amico. Era scettico. Temeva che la bambina non avesse avuto il coraggio di mantenere il segreto, o che si sarebbe tirata indietro per paura delle conseguenze. Non aveva mai disobbedito a sua madre, prima. Non che questa fosse una vera e propria disobbedienza. Era un’omissione, piuttosto. Ma lui, anche se di qualche anno più grande, non era poi così adulto da rendersi conto della differenza, figuriamoci sapergliela spiegare. In ogni caso, si era preoccupato inutilmente. Lei annuì, in risposta. Era pronta. Alzò un poco il vestito fino all’attaccatura delle gambe per mostrare la stoffa gialla nascosta sotto la gonna.

Gialla, come i suoi capelli.

«Hai mica paura?» la provocò lui, adesso che era certo della sua risposta.

La bambina alzò il mento con aria di sfida.

«No!» esclamò.

Però un poco il cuore le batteva più forte. Non ci sarebbe dovuta andare, lo sapeva. Ma’ diceva che era pericoloso, che ce l’avrebbe accompagnata lei, ma era sempre troppo stanca o c’erano cose più importanti da fare, non era mai il momento buono, e i giorni passavano e faceva un caldo… E poi non ci andava mica da sola, no?

«Ma tu non sai nuotare! Sicura di volerci andare?» insistette l’amico prendendola in giro con un sorriso sghembo, residuo del labbro leporino operato alla buona, tanti anni prima.

«Hai detto che mi insegni tu» ribatté lei con quieta certezza. Punto. Non c’era bisogno di rimarcare altro. Lui le avrebbe insegnato, e le sarebbe stato vicino.

Non vedeva l’ora di arrivare al lago. Si guardò un attimo alle spalle. Se Ma’ si fosse svegliata in quel momento… Ma no, dormiva ancora di quel sonno pesante indotto dalla stanchezza e dall’afa. Non l’avrebbe mai accompagnata, lo sapeva.

«Va bene, andiamo!»

C’era molto da camminare prima di arrivare all’acqua.

Lo chiamavano lago, ma era poco più di uno stagno. Così piccolo che persino lei avrebbe potuto attraversarlo con una barchetta, se ne avesse avuta una e se avesse saputo remare. Era profondo, però. L’acqua, scura di alghe e limacciosa sulla riva, diventava subito alta e chi non era esperto rischiava di andar giù nel blu che si spalancava all’improvviso, riflettendo il cielo. Dicevano che ci fosse caduto un meteorite, tanto tempo prima, un tempo così lontano che lei non riusciva nemmeno a immaginarlo, e per questo motivo il fondale si inabissava così repentinamente.

Nei millenni, poi, si era riempito di acqua. Fresca, limpida, invitante. Blu.

Blu, come i suoi occhi.

Comunque fosse, per quanto pericoloso era l’unico divertimento a disposizione e lei desiderava tuffarcisi più di ogni altra cosa. Non si lamentò nemmeno una volta per il lungo cammino sotto il sole bruciante del primo pomeriggio, anche se doveva arrancare appresso al suo amico. Per ogni passo del ragazzo più grande ne occorrevano tre dei suoi.

Le gocce di sudore che le scendevano dalla fronte segnavano per brevissimo tempo il suo percorso. Cadevano, creavano un minuscolo cratere nel terreno polveroso suscitando una microscopica reazione a catena, un’esplosione di lievissimi granelli di terra che si sollevavano intorno alla macchiolina scura. Una frazione di secondo, poi il calore congiunto del sole e della terra asciugava la goccia. Era una traccia che appariva, e repentinamente spariva.

V

Mi chiudo la porta alle spalle ed esco nella luce abbacinante del primo pomeriggio. Nonostante il rifornimento di acqua e aria fresca che avevo fatto a casa, e che mi faceva sperare di resistere almeno qualche minuto, l’afa mi aggredisce brutale senza alcun preavviso e il bicchiere d’acqua che ho appena bevuto evapora dal mio corpo con effetto immediato. Non ho ancora mosso neppure un passo e già il vestito mi si è incollato addosso, bagnato di sudore.

Dio, quanto odio l’estate! Il caldo è sporco, appiccicoso, puzzolente e rosso. Sa di mani sudate e respiri ansanti, ti soffoca, ti blocca il respiro e ti sembra di morire mentre intorno a te i fiori si seccano e la frutta marcisce, e senti il ronzio ossessionante degli insetti, attirati dall’odore dolciastro del sudore e del sangue, che ti si posano addosso per suggere il loro cibo e la tua morte.

Mi piace l’inverno, invece, e la neve innocente e candida che riveste il terreno. Mi piace sentire il vento freddo sul volto, e la quiete profonda dei campi innevati in cui il mio silenzio si confonde e si annulla. Non c’è puzza di sudore stantio in inverno, a toglierti il fiato, e l’aria è pura e fresca. Non c’è quel sole impietoso che ti porta all’inferno e ti mozza il respiro e ti brucia la pelle, come adesso.

Ma in fondo è giusto così. Questa giornata non poteva essere che una giornata estiva, sgradevole e maleodorante per entrambi. O forse tu non avverti il caldo esterno, là dentro? Probabilmente le mura spesse attenuano il calore e ti tengono in una specie di ambiente controllato. Né troppo caldo, né troppo freddo.

Forse è giusto anche questo. Il caldo potrebbe soffocare i tuoi ricordi, il freddo potrebbe anestetizzarli. Invece io voglio che tu possa ricordare e rimpiangere. Per tutta la vita. Per tutto il resto della tua vita. Un tentativo di sorriso appare sulle mie labbra. Mi piace pensare a quanto te ne resta. L’orologio che ho lasciato a casa continua a ticchettarmi nella testa.

Va-i. Va-i. Va-i.

E io vado. Anche se il sole mi brucia il collo e le braccia lasciate scoperte dal vestito senza maniche, anche se l’aria bollente mi ustiona i polmoni e mi fa mancare il fiato. Cammino, a piccoli passi determinati. Il sudore mi cola negli occhi, salato. Mi annebbia la vista, ma non mi occorre un occhio d’aquila. La via è dritta, e la conosco fin troppo bene. Non sbaglierò.

Ho un appuntamento, non posso mancare. Sto aspettando da una vita.

VI

Non aveva mai visto il mare se non nelle immagini dei libri di scuola, ma non poteva essere più attraente di quel laghetto, ne era certa. Intorno alla fossa scavata dal sasso celeste era cresciuto un boschetto di salici che davano finalmente riparo ai raggi del sole, anche se non c’era nessun riparo dall’afa. C’era solo quella distesa di acqua blu, invitante. Brividi di emozione le fecero rizzare i peli sulle braccia.

«Non dirmi che hai paura, adesso» la schernì l’amico nel vedere la sua pelle d’oca.

Lei ricambiò lo scherzo con uno sguardo intenso, gli occhi blu scuro come la superficie dell’acqua così carichi di intenso appassionato desiderio che i brividi salirono a lui, lungo la schiena, invisibili. Qualcosa gli si agitò nello stomaco, come farfalle impudenti. Era una sensazione mai provata prima, di ansia, timore e bramosia. Non sapeva neppure se gli piacesse o meno.

«Sapessi che voglia che ho!» lo rimbeccò la bambina senza accorgersi delle farfalle che volavano silenziose.

Dopo essersi fatta scivolare il vestito sui piedi con due veloci scrollate di spalle, corse verso la riva lasciando piccole orme nel fango. Il costumino giallo la faceva sembrare un pulcino. Un anatroccolo, anzi. E lui doveva fare da mamma oca.

Da papà oca, era un maschio.

Microscopiche gocce di sudore gli imperlarono i baffetti appena accennati, poco più di una peluria adolescenziale.

«Stai attenta, non correre, puoi scivolare!» le disse con un tremito nascosto nella voce, sforzandosi di non farlo trapelare all’esterno. Non c’era nulla di diverso dal solito. Non doveva esserci nulla di diverso.

Non aveva nemmeno terminato di pronunciare la frase che lei slittò sulla fanghiglia viscida della sponda e finì col sedere a mollo. Con una risata si rotolò nell’acqua melmosa della battigia. «Troppo tardi! Allora, vieni? Mi insegni a nuotare o devo rimanere a impiastricciarmi qua nel fango?»

«Aspettami, arrivo!» Si tolse con più calma della bambina scarpe e vestiti e le tese una mano per tirarsi su.

«Ma guarda, ti sei sporcata tutto il costume di fango… Dai, entriamo in acqua, così ti pulisci.»

Si tennero per mano mentre avanzavano un passo dopo l’altro, immergendosi poco alla volta nel lago. Le farfalle nello stomaco del ragazzo cominciarono a volare impazzite.

Quando l’acqua le arrivò all’altezza dei seni immaturi si fermò, finalmente impaurita. Da quel punto la visuale era limpidissima e vedeva il fondale digradare e sprofondare sempre più giù, fino al punto in cui la luce del sole non arrivava a forare il nero dell’abisso e lo sguardo si perdeva nel nulla.

«Va… va bene qui, no? Adesso mi insegni?» suggerì con voce appena appena incerta. Perché la guardava in quel modo? Sembrava che volesse… che volesse… Le mancarono le parole. Lui era solo accaldato e desiderava tuffarsi. Tutto qua.

«Sì, può andare. Prima di tutto però, ti devi immergere, devi prendere confidenza col lago. Chiudi la bocca e non aver paura.» Così dicendo le mise una mano sulla testa e la premette verso il basso. Lei respinse l’istintivo moto di protesta e si lasciò calare sotto la superficie.

In un rapporto di amicizia, la fiducia è fondamentale.

VII

Non c’è nessuno per la strada a quest’ora. Chi sarebbe così pazzo da mettersi in cammino sotto il sole cocente del primo pomeriggio? Non c’è nemmeno un albero a fornire un momentaneo sollievo, sia pure interrotto dal vuoto che sempre si crea tra una chioma e l’altra. Non siamo mica in un bosco, qui. Come nella più trita delle descrizioni, l’asfalto è rovente. È così morbido che sembra quasi cedevole sotto i miei piedi. Quando li sollevo dal suolo per compiere un altro passo mi pare che il manto stradale non voglia lasciarli andare e ho l’impressione di sentire il risucchio del bitume. Caldo schifoso!

Qualche rara macchina mi passa accanto, i cristalli alzati per mantenere il fresco all’interno. Forse hanno anche loro la mia stessa meta. Qua, in questo quartiere, c’è poco altro oltre i nostri rispettivi domicili, il mio e il tuo.

Il muro alla mia destra emana a sua volta calore, rinforzando la sensazione di stare camminando in un forno. Dovrei allontanarmene, e invece mi accorgo che inconsciamente quasi ci struscio contro, in cerca di un conforto. Eppure non sono sola. Mi fanno compagnia in tante, una piccola processione di piccole donne. Senza voce, come sono stata io per anni.

Però poi io l’ho trovata, e ho parlato. Un fiume di parole, anche per loro che non potevano più. Anzi, un lago di parole.

E adesso sto arrivando. Non immaginavo ci volesse tutta questa fatica, tutto questo dolore. Ci dividono pochi metri, ma sono uno più pesante dell’altro. Nella mia immaginazione ho sempre camminato a passo svelto, altera e fredda, consapevole dell’importanza del momento.

Il momento non ha perso importanza qui, ora, nella realtà, ma la mia fierezza era solo nella mente. Adesso che poco tempo? percorso? ci separa, mi sento piccola e spaventata e sporca. E non c’è nessuna leggerezza nel mio andare. Per quante volte mi sono immaginata questa scena, non una sola che avessi avuto sentore dell’immane fatica a cui sarei stata sottoposta. Ma non importa, anzi dà più valore al momento.

Quello che sento è il peso del dolore che mi grava sulle spalle, perché sono tanti i dolori che mi porto appresso. Il mio, quello di mia madre morta durante il mio silenzioso inferno, quello delle altre, giunte dopo di me, e lì rimaste ad attendermi, fino a ora, fino a questo giorno incredibilmente caldo.

Mi sento morire.

Io.

E tu? Come ti senti tu, oggi?

Sì, oggi che sto finalmente arrivando, testimone della mia sofferenza. E della loro. Sono con me, indossano i miei colori che sono i tuoi: il blu, il giallo e il rosso. Solo io non ho più colori da indossare.

Da quel giorno la mia vita è in bianco e nero. Che messi insieme danno il grigio dei miei capelli.

VIII

Certo, si fidava. Quindi non ebbe paura. Mentre lui le impediva di risalire a galla lei aprì gli occhi che aveva chiuso nel timore che le bruciassero. Si ritrovò immersa in un sogno azzurro. Tenne la bocca chiusa come lui le aveva detto, ma non ebbe bisogno di stringersi il naso con le dita. Istintivamente trattenne il respiro per evitare che l’acqua le risalisse su per le narici e assecondò le sue mani che delicatamente la misero in orizzontale e poi la riportarono a galla collaborando con la legge di Archimede.

«Ti è piaciuto?» le chiese con insolita dolcezza. La stessa di quelle mani che l’avevano sorretta senza incertezze.

«Tantissimo!»

«Lo sai chi ti ha riportato su?»

«Ma… sei stato tu, no?»

«Non io.»

«E dai, smettila di prendermi in giro!»

«No, dico davvero.»

«Ma ti pensi che sono scema? Ti ho sentito che mi reggevi la schiena.»

«No, io te l’ho solo sfiorata perché tu stessi tranquilla. È stata l’acqua a reggerti.»

«Che cosa? Allora vuoi dire che non c’è bisogno di imparare a nuotare? Se ci pensa l’acqua a tenermi su…»

«Provaci, dai. Porta le spalle all’indietro e le gambe in avanti…»

La lezione continuò. Lui era un bravo insegnante e lei un’allieva volenterosa. Erano soli, e avevano tutto il lungo pomeriggio estivo davanti. Sarebbe stata una giornata indimenticabile.

Indimenticabile, davvero.

IX

Mi sento svenire a camminare sotto questo sole senza neppure un ombrello a farmi ombra. Perché mai non ho chiamato un taxi? Quanto mi sarebbero costati questi cinquecento metri? Nemmeno un paio di dollari, secondo me. Ma io sono abituata a contare solo su me stessa, e me stessa ha poco da contare. Un lavoro da cameriera alla tavola calda ti insegna a risparmiare ogni centesimo.

Non che io avessi mai avuto voglia di avere più soldi di quelli che mi consegna ogni settimana il padrone del locale. Cosa me ne sarei dovuta fare, di altri soldi? Quelli che guadagno avevano l’unico scopo di farmi sopravvivere nell’attesa. Nient’altro. Non ho interessi al di fuori di questa casa e di questa strada. Sì, questa che porta alla struttura centrale dove sei tu.

Mangiare, bere. Qualche telefonata. Qualche vestito giusto per la decenza. Il mio tempo libero lo passo affacciata alla finestra, a guardare sempre lo stesso spettacolo. Che non costa niente. Beh, non costa denaro, così è più giusto. È il tributo mentale che è incommensurabile. Però non mi preoccupo.

Sto per esigere quanto mi è dovuto.

X

Quando finalmente la riportarono a casa, dopo due giorni di ricerche, il suo costume aveva perso quel bel giallo pulcino. Era diventato rosso. Come lei, come i suoi capelli.

Per fortuna l’emorragia si era fermata, ma aveva perso tanto di quel sangue per la violenza e le botte e le ferite – quanto aveva lottato contro quelle mani prepotenti! – che tutto il suo mondo aveva assunto una sfumatura rossa. E insieme all’innocenza aveva perso la parola e il senno. Era rimasta in vita, ma di poco più viva di una bambola.

Lui invece ci aveva preso gusto, il gioco gli era piaciuto. Colpì ancora, ma aveva imparato la lezione e non lasciò più pulcini vivi dietro di sé. Dopo quella prima volta non voleva correre rischi. Diventò esperto, e giocò per anni, ogni volta che gliene veniva il desiderio. Sembrava imprendibile.

Fin quando lei non ritrovò le parole.

XI

TIC…

Ci sono, finalmente. Ce l’ho fatta. Davanti al mio volto rosso e accaldato – devo tergermi il sudore salato dagli occhi – si erge il cancello d’acciaio sormontato dal filo spinato. La meta cui ho mirato nel corso dei lunghi anni affacciata alla finestra.

All’ingresso presento i miei documenti, il mio “invito”. Sono qui in veste ufficiale, io, cosa credi? Ho tutto il diritto di essere qua, oggi. Ne abbiamo il diritto. Io e la mia processione invisibile.

Non mi fanno domande, non ce n’è bisogno. Il pezzo di carta parla per me. Per fortuna, perché non sono sicura di riuscire a parlare. Ma non occorre che io dica nemmeno più una singola parola.

Oggi, io devo solo sedermi al di qua del vetro e guardarti morire.

TAC.

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