GABRIELLA - Racconti

Un passo avanti, un passo indietro, e uno di lato

«Prego, si accomodi.»

«Sul lettino?»

«Come preferisce. Anche in poltrona, se vuole.»

«Ah. No. No, sul lettino va bene. Magari così sarà più facile.»

Più facile. Sì, come no. A chi voglio darla a bere? Non c’è più nulla di facile, per me. Non da quando… No, no, non esiste un “da quando”!

Non posso farlo. La mia mente si rifiuta di tornare indietro. O andare avanti, che in fondo è lo stesso.

Ma è per questo che sono qui, no? Proprio per riportare alla memoria ciò che è svanito. Dicono che non ci sto più col cervello. Vorrei vedere loro, a rimanere sani dopo… No! Ho detto che non voglio!

«Sta comodo?»

«Beh…»

«Certo, mi rendo conto. È un po’ nervoso.»

A dir poco. Ho una paura fottuta, in verità. Ma dicono che devo farlo, che è per il mio bene. A saperlo, qual è. Io so solo che c’è un buco, qua, giusto nella mia testa. Un buco nero che ha inghiottito… E dai, no, maledizione!

La mia vita procede a scatti. Le ore si spezzano, e ritornano su se stesse, e vanno avanti, ma poi si fermano e poi schizzano di nuovo con un triplo salto carpiato laterale, e mi lasciano di stucco, e io mi muovo e cammino e corro, ma finisco sempre davanti a quella porta-dietro a quella porta, davanti la porta-dietro la porta, davanti-dietro, davan…

«Bene, continui così. Guardi il ciondolo. Segua il movimento con gli occhi, non distolga lo sguardo. È rilassante, non è vero? Osservi la pietra, avaan-tieindietro, avaan-tieindietro… Si lasci andare, si abbandoni… Suu-giù, suu-giù. Sta dormendo, eppure sente la mia voce, non è così?»

«Sì, ma…»

«Io sono accanto a lei, non si preoccupi. È pronto a cominciare?»

«Io… Sì, ok.»

Pronto? Per niente! Cioè, sì, lo so cosa dobbiamo fare, quella cosa là, che lui mi porta indietro (o avanti, non dimenticarti dell’avanti) nel tempo, però non mi piace, ma lo debbo fare, perché solo così io posso comprendere, ma io non voglio ricor…

«No, non faccia resistenza. Guardi, siamo quasi arrivati. Riconosce il posto in cui ci troviamo?»

«Stiamo in… una strada che… sì, credo di conoscerla. Si snoda tra i prati. Sono belli. Non… non c’è nient’altro, però. Anzi, no, c’è la nebbia. È così fitta, non vedo nulla, non mi piace questo posto, è successo qualcosa… qualcosa di orrendo… andiamo via, per favore!»

«Non si agiti, guardi la pietra, la vede? Avaan-tieindietro, avaan-tieindietro.»

Sono tutto sudato, ho il cuore che mi batte a mille. Ma c’è questa voce ipnotica, suadente, e io ho un sonno, un sonno… È un sacco di tempo che non dormo bene. Che non dormo proprio, in verità, se non del sonno indotto dagli psicofarmaci. Eppure è piacevole arrendersi. Se non fosse per quelle due figure sul fondo della stanza che continuano a osservarmi come avvoltoi.

«Il sole sta dissipando la nebbia, il paesaggio si apre. C’è qualcosa al limitare del prato, cosa vede? Coraggio, è proprio lì, nel suo campo visivo.»

«Sì, lo vedo! C’è un albero, è il limone che piantai quando…» No! Non ho piantato nessuno stramaledetto albero, mai! Non posso averne piantati, perché se l’avessi fatto significherebbe che non è stato un sogno, che ce l’avevo, io, un giardino e una casa e una fa… No! No, maledizione, non voglio seguirti in questa storia, lasciami in pace, che diavolo vuoi da me, io me ne voglio andare da qui, non puoi costringermi a ricor…

«Shh, si rimetta giù, si distenda. Non sta comodo sul lettino? Mi stava dicendo del limone. Dove si trova?»

«In giardino. Accanto alla piscina.»

Sì, mi sembra di vederla. Non ce la saremmo potuta permettere, ma l’avevamo desiderata tanto… Era stata una vera follia.

«Benissimo, continui così. Sta andando bene, sa? Ora io conterò a ritroso da dieci a uno. Ogni volta che dirò un numero lei farà un passo indietro nei suoi ricordi. Non abbia timore, ce la può fare. Pronto? Cominciamo…»

Ehi, ehi fermo! Aspetta, non posso. Non voglio. Davvero, preferisco lasciar perdere tutto. Sto bene così, in fondo, perché dovrei farlo? Non puoi…

«In che stagione ci troviamo? Dieci.»

Oddio. Non voglio parlare. Sono io che decido, no? Ma le parole escono da sole dalla mia bocca.

«È inverno. Fa freddo. L’acqua è ghiacciata.»

Non posso. Ti prego.

«L’acqua della piscina, intende? Nove.»

«No… Sì… Non solo. Anche l’acqua della piscina. Ma tutto è ghiacciato. Fa un caldo…»

«Cosa vede adesso? Otto.»

«Quello è il vialetto che porta… da qualche parte.»

«Dove? Mi dica: dove porta? Sette.»

Da nessuna parte, va bene? Non c’è nulla oltre, solo foschia e grigio e…

«Non lo so. È lì e basta.»

«Però è stato spalato. Ai lati ci sono due muretti di neve. Chi è stato? Sei.»

 «Sono stato io. Sì, ricordo la pala, grossa e pesante. L’ho pulito io.»

«Ma è stato faticoso. Perché è stato così solerte? Cinque.»

Alt! Stop!! Pericolo!!!

Le ombre crescono, fanno un passo avanti. Incombono su di me.

«Io non volevo… Non volevo che loro scivolassero sul ghiaccio, o affondassero nella neve.»

«Allora c’era qualcuno. Qualcuno a cui lei teneva. Più di uno, anzi. Chi? Quattro.»

Sto sudando. Fa un caldo bestiale in questa stanza. Sotto le ascelle si allargano macchie umidicce, rivoli di sudore mi scorrono lungo le pieghe del collo… Dio, che caldo! Anzi no, fa freddo. Il sudore mi si ghiaccia all’istante sul corpo. Brividi feroci mi scuotono tutto. Tremo. Non ce la faccio più. Apro la bocca per parlare, ma non ne esce suono. Ci provo, due, tre volte. Devo obbedire all’ordine, devo rispondere, ma non vedi che non ci riesco? Annaspo, mi manca il fiato, mi sento male!

Una mano mi sfiora la spalla. Un tocco leggero che mi tranquillizza.

«Sì, c’era qualcuno. Ombre. Come quelle, quelle che si nascondono alle sue spalle, che fanno finta di non esserci, ma io le vedo, le sento. Le sentivo anche allora…»

«Dove? Ce la può fare. Tre.»

Mi arrendo. Che Dio abbia pietà di me. Sono tutto gelato e sudo.

«In casa. C’è qualcuno, in casa. Lì, alla fine del vialetto.»

«Quindi, davanti ai suoi occhi adesso c’è una casa. Cosa sente? Due.»

«Urlano. Le sento urlare. Chiedono aiuto. Stanno morendo.»

«Chi? Chi sta urlando? Chi chiede aiuto? Uno.»

Non posso più nascondermi. Non posso più mentire. Non ho più forza per oppormi al ricordo che, lo sapevo! doveva rimanere sepolto per sempre.

«La mia famiglia. Mia moglie. E mia figlia.»

È finita. Il dolore, lacerante e insopportabile, si ripresenta con tutta la violenza che io avevo già conosciuto, e mi strappa il cuore dal petto. Sarei dovuto morire anch’io, quel giorno.

«Perché non è entrato a salvarle?»

Sono ancora sotto ipnosi? Se me lo sto domandando, forse no. Però non posso fare a meno di rispondere.

«Non ci sono riuscito. Le fiamme erano dappertutto, non potevo entrare. Le sentivo urlare dietro quella porta, e io ero lì davanti e non ho potuto far nulla, il fuoco ha respinto i miei tentativi e sono rimasto sulla soglia a sentirle morire. Sarei dovuto morire anche io…»

Mi sono messo a sedere, tormentandomi le mani deturpate. Non riesco a guardare lo psichiatra negli occhi. Perché mai hai voluto farmi ricordare quel giorno? Non sarebbe stato meglio rimanere nell’incoscienza idiota in cui mi ero rifugiato? Sei ancora così sicuro che sia questo il mio bene? Io non posso crederlo.

«Mi guardi.»

Riluttante, alzo gli occhi e li fisso nei suoi.

«Lei non è morto.»

Ah grazie, ma questo lo sapevo già. Non c’era bisogno di…

«Per fortuna.»

Ma che sta dicendo? Quale fortuna, in nome di Dio? Sarebbe questa la sua fantastica cura, dottore? Adesso sono certo di non essere più sotto ipnosi. Non mi sembrerebbe così inutile quest’uomo, altrimenti.

«Non capisce, vero? Si osservi le mani, per favore.»

Vorrei mandarlo a quel paese, ma è più forte di me, non ci riesco. Sbuffo, però.

«D’accordo.»

Non so neppure io perché lo faccio, ma obbedisco. Le porto davanti al torace, palmi in basso, dita allungate verso l’alto: sono le mie solite mani. Non c’è nulla di particolare.

«Me le descriva.»

«Sono grandi. Dita tozze. Unghie forti. Falangi senza peli.»

«Che altro?»

«Come, “che altro”? Basta, non c’è più nulla da dire. Sono mani come tante.»

«No. Non come tante. Sono le sue. Perché non le gira?»

E va bene, psichiatra del cavolo, le giro!

«Ecco qua.»

Soddisfatto?

«Bene.»

E adesso? Io sto zitto, lui sta zitto. Solo queste inutili grosse mani al centro della scena. Le figure sul fondo della stanza si fanno più grandi, si avvicinano. Sono sempre sfocate, però.

«Perché non mi dice più nulla, dottore?»

«Sto aspettando.»

«Le mie mani?»

«Non ha finito di descriverle.»

«Si riferisce a… queste?»

Indico le cicatrici che mi deturpano i palmi.

«Proprio a queste, sì. Cosa sono?»

«Non so. Non me lo ricordo.»

Non riesco!

Le vedo avvicinarsi con la coda dell’occhio. Una più bassa e una più alta. Le figure, intendo. Sembra che stiano perdendo la loro consistenza di ombre. La loro solidità incombe.

«Non le ha avute sempre. Cinque anni fa, non le aveva. Due anni fa, non le aveva. Ma l’inverno scorso…»

Cosa? Cosa, l’inverno scorso? Non c’è stato inverno, l’inverno scorso! Rammento l’estate, e poi l’autunno… e poi era già primavera, e io avevo questo buco nella testa, e non avevo una casa e una famiglia, anzi sì, ce l’avevo, l’ho appena ricordato, e c’era quella porta di ghiaccio e di fuoco, e le fiamme che bruciavano, e le urla al di là del legno, e mia moglie e mia figlia che morivano, e la porta chiusa, e la maniglia incandescente e io che le sentivo e non riuscivo a entrare…

Ma chi siete, che volete da me, state lontane, loro sono morte e voi siete solo ombre, ombre nella mia testa, e io non…

«L’inverno scorso lei non è morto, e non è neppure fuggito, di fronte all’incendio che stava devastando la sua casa.

Lei non si è arreso, e con queste sue mani ha afferrato la maniglia che bruciava come fiamma. La sua pelle si è fusa sull’acciaio ardente, e il dolore terribile le ha fatto perdere conoscenza. Non prima, però, di riuscire ad aprire la porta consentendo loro di fuggire dall’incendio.

Lei le ha salvate, e queste cicatrici che deturpano in modo indelebile le sue mani ne sono la prova.

Guardi, ecco sua moglie e la sua bambina. Sono qui con noi, e la stanno aspettando. Aspettano che lei finalmente le riconosca.»

Le figure che non sono ombre assumono spessore e identità. Hanno un volto, e occhi che sorridono, e braccia che si protendono, e labbra che mi baciano.

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